Quando si è fragili? Nell’infanzia, a vent’anni, nella vecchiaia? Questa è la domanda che ci pone Donatella Di Pietrantonio nel suo “L’età fragile”. Partendo dal delitto del Morrone, accaduto negli anni Novanta nel suo Abruzzo, l’autrice dipinge un quadro accurato della difficoltà di lasciare andare il passato da parte della protagonista Lucia, coinvolta da vicino in quel fatto di cronaca nera, e di conseguenza l’incomunicabilità che sperimenta con suo padre e sua figlia Aurora, tornata in paese quasi irriconoscibile dopo un breve periodo di studi a Milano. La prosa della Di Pietrantonio è calibrata ed evocativa, e la scrittrice ha fatto un lavoro egregio nel piegare la trama del romanzo e i temi trattati senza stravolgere i fatti veramente accaduti.
Ma siccome non esiste il libro perfetto, il massiccio uso di flashback alle volte rallenta un po’ l’azione e pone dei problemi di prospettiva difficili da risolvere – per esempio quando Lucia racconta di fatti che nel passato stavano accadendo nello stesso momento a chilometri di distanza rispetto dove si trovava lei. Come facciamo a fidarci delle ricostruzioni del personaggio che non era fisicamente presente alla scena?
In seconda battuta, la focalizzazione sul tema del passato e dell’incomunicabilità alle volte toglie spazio ai personaggi di cui vorremmo forse vedere il cambiamento in modo più netto. Per esempio la figlia di Lucia ritorna da Milano irriconoscibile dopo una brutta esperienza e si rifugia nello stordimento di un’apatia continua e nella panacea del sonno soccombendo a quella che oggi chiamiamo “sindrome da Hikikomori”. A un certo punto, la ragazza trova una motivazione per riprendere la sua vita dalla protesta contro la costruzione di un hotel al Dente di Lupo, la sezione di bosco in cui è avvenuto il delitto del Morrone. Il cambiamento della ragazza, a me personalmente, è arrivato tutto insieme, quando forse poteva essere più dosato considerando che per diversi capitoli la perdiamo di vista poiché Lucia in prima persona racconta la sua vita del momento. L’autrice ha sicuramente selezionato Lucia come protagonista perché è il personaggio più interessante e che doveva compiere le scelte più sofferte nel romanzo; ha deciso di usare la forma all’io invece che la terza persona per narrare la storia per immedesimarci in lei, ma mi domando come sarebbe stata se avesse deciso invece di usare una terza persona e narrare più da vicino tutti i personaggi e le loro interazioni.
Raccomanderei “L’età fragile” a chi apprezza romanzi che partono da spunti di cronaca, o che trattano sfumature su un tema anche forte più che focalizzarsi sull’azione. Non è invece per chi adora leggere storie con protagonisti volitivi, impulsivi o molto attivi.
Alla domanda del romanzo, “qual è l’età fragile”, la risposta potrebbe essere “tutte”, e l’autrice sembra propedere per una soluzione in cui questa fragilità va accettata.
Da questi presupposti, a me personalmente sorge un’altra domanda: “una volta che sappiamo di essere fragili, come ci fortifichiamo?”